“Venerdì in Vintage”DJAngelino

Tina Turner

è nata Anna Mae Bullock il 26 novembre 1939 a Nutbush, nel Tennessee. I suoi genitori, Floyd e Zelma Bullock, erano poveri mezzadri, che si separarono e lasciarono Anna Mae e sua sorella allevate dalla nonna. Quando sua nonna morì all’inizio degli anni ’50, Anna Mae si trasferì a St. Louis, per stare con sua madre.

Appena adolescente, Anna Mae, che cantava nel coro della sua chiesa, si è rapidamente immersa nella scena R&B di St. Louis, trascorrendo gran parte del suo tempo al Club Manhattan. Fu lì, nel 1956, che incontrò il pioniere del rock-and-roll Ike Turner , che suonava spesso al club con i Kings of Rhythm. Presto si è esibita con il gruppo come “Little Ann” ed è diventata rapidamente il momento clou del loro spettacolo. Tina ha iniziato a esibirsi con il musicista Ike Turner negli anni ’50. Divennero noti come Ike e Tina Turner Revue, ottenendo il plauso popolare per le loro esibizioni dal vivo e registrazioni come la top 5 hit “Proud Mary”, fino a quando Tina se ne andò negli anni ’70 dopo anni di abusi domestici. Dopo un lento inizio della sua carriera da solista, Turner ha ottenuto un enorme successo con il suo album del 1984 Private Dancer . Ha continuato a pubblicare altri album in cima alle classifiche e singoli di successo ed è stata eletta due volte nella Rock & Roll Hall of Fame. La venerata cantante con otto Grammy al suo nome è stata successivamente coinvolta nel progetto spirituale Beyond . Turner è morta il 24 maggio 2023, all’età di 83 anni.

Venerdì in Vintage”DJAngelino

MADONNA

Se esiste un manuale della perfetta popstar, a scriverlo è stata proprio lei: Veronica Louise Ciccone, nata il 16 agosto 1958 a Bay City, Michigan, Stati Uniti. Una popstar mutante e cannibale, multiforme e postmoderna, capace di lanciare le mode ma anche cavalcarle con astuzia, farsi icona e feticcio e al contempo ridicolizzare gli istinti più dozzinali di un pubblico assetato di idoli da adorare e sacrificare sull’altare della stardom. Fingendosi oggetto sessuale e facile preda, ha di fatto sottomesso sempre tutti, dai discografici ai suoi fan. Una spregiudicata dominatrice, insomma, come la “Mistress Dita” di “Erotica”, ma in versione manager: guanto di velluto e pugno di ferro. Se interi eserciti di popstar e aspiranti stelline sono finiti sbriciolati nel tritacarne dello show-business, lei è riuscita sempre ad avere il controllo del gioco, stritolando a sua volta tutti quelli che le hanno intralciato il cammino. Una diva viziosa e irriverente, capace di farsi beffe tanto dei clichè femministi tradizionalmente associati alle rockeuse quanto dei dogmi di quell’impenitente circo maschilista che è da sempre il music business.
Impossibile, per un personaggio simile, non attirarsi, oltre alla venerazione dei fan, il livore sempiterno di quanti non accetteranno mai un simile ribaltamento di prospettiva o, più banalmente, non riusciranno mai a vedere oltre la cortina fumogena della “material girl”. Ad aiutare nella sua scalata l’esuberante Miss Ciccone, in realtà, aveva provveduto già l’anagrafe, recandole in dote l’appellativo più proibito e impossibile di tutti: Madonna. Epperò di virgineo la sfrontata punkette Veronica Louise aveva ben poco.

Figlia dell’abruzzese Silvio, rimasta orfana della madre a sei anni con sette fratelli, la ragazzina che cresce a Detroit e studia danza moderna ha già pochi scrupoli e un chiodo fisso: “I wanna be famous, I wanna be a star” – come auto-ironizzerà nella sua prima raccolta di videoclip.
La “missione popstar” parte a New York, alla fine degli anni Settanta, dove Veronica Louise si trasferisce per lavorare in una compagnia di danza. Per sbarcare il lunario, gira anche qualche film di serie B (come il porno-soft “A Certain Sacrifice”) e posa nuda per riviste maschili. Metà adolescente ribelle, metà cinica calcolatrice, Miss Ciccone comincia la sua scalata sgomitando nelle discoteche “off” di Soho. Quindi, due anni dopo, entra nell’entourage di Patrick Hernandez, l’autore di uno dei tormentoni dance di fine decennio: “Born To Be Alive”. Dopo una breve permanenza a Parigi, forma con il suo boyfriend Dan Gilroy il duo di dance Breakfast Club del quale è prima batterista e poi cantante. Poi, con l’altro ex-fidanzato e amico di college Stephen Bray forma gli Emmy, iniziando a lavorare a una serie di brani da discoteca. Alcune di queste canzoni vengono programmate al Danceteria di New York dal disc-jockey Mark Kamins. Sarà proprio lui il deus ex machina del suo vero e proprio esordio su vinile, producendo “Everybody”, primo singolo a nome Madonna. E’ un brano di rhythm and blues tanto elementare quanto trascinante, che la cantante americana interpreta con sensualità da Lolita della suburbia

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NEW ORDER

New Order prendono le mosse da un patto tra i quattro componenti dei Joy Division: se uno di loro fosse uscito dal gruppo, i rimanenti tre avrebbero dovuto cambiare nome e genere musicale. Le cose non sono così semplici. Il 18 maggio 1980, alla vigilia della partenza per il primo tour americano, il cantante Ian Curtis si impicca nel bagno di casa. Peter Hook, bassista, Bernard Sumner, chitarrista, e il batterista Steve Morris decidono di combattere lo shock ripartendo quasi da zero, con una manciata di demo incisi poche settimane prima della morte da Curtis. Cercano una nuova voce, ma dopo aver provato tutti e tre decidono di assegnare le parti vocali a Sumner, che però è piuttosto incerto: non ha la presenza di Curtis e ha in più problemi a suonare e cantare contemporaneamente. Inciso il singolo di debutto, “Ceremony”, che risente ancora notevolmente del suono dei Joy Division, il gruppo prende una forma definitiva solo dopo vari concerti condotti col nome “New Division” e con l’ingresso della fidanzata di Morris, Gillian Gilbert, che avrà un ruolo decisivo nello spostare l’asse del gruppo verso il synth-pop. Il primo album dei New Order, Movement, esce nel 1981 con un’accoglienza fredda sia della critica sia del pubblico. I fan dei Joy Division trovano gli approcci con la drum machine di “Truth”, “Senses” e “ICB” (quest’ultimo titolo è un acronimo per “Ian Curtis buried”, Ian Curtis sepolto) più deboli rispetto al potenziale elettronico che le ultime cose dei Joy Division avevano mostrato (pezzi come “Komakino”, “Isolation” o “She’s Lost Control”), e biasimano l’evidente tentativo di un Sumner spaesato di imitare il tono di voce profondo e le cadenze drammatiche di Curtis. Il disco, pur essendo fin dal titolo emblematico un’opera di ricostruzione più che un lavoro compiuto, a un ascolto spassionato risulta però già nettamente diverso dai Joy Division, più vicino alle nevrosi dei primi Ultravox, con una maggiore capacità di sintesi, un senso drammatico meno incalzante e assai più riflessivo. Il disco è una sostanziale ricapitolazione del suono dei due album realizzati dai Joy Division, recupera il tono metallico dei riff di “Unknown Pleasures” in “Denial” e “Dreams Never End”, e il tono da processione funebre di “Closer” nelle lentissime “Him” e “Doubts Even Here”; ma il riverbero delle voci, il mixaggio volutamente approssimativo, l’utilizzo rovesciato rispetto alla tradizione rock di bassi e chitarre ritmiche, e soprattutto una costruzione molto meno scandita dei brani, meno geometrica e più distesa, sembrano prefigurare una rottura non completamente riuscita con il passato. Quello che può sembrare il disco più vicino ai Joy Division in realtà lo è solo superficialmente: se l’elettronica si farà spazio nei dischi successivi e le idee di Sumner e Hook si chiariranno, in realtà la loro scrittura si alternerà sempre tra brani volutamente registrati alla bell’e meglio in studio e altri dalla struttura calibrata fino all’eccesso.

In generale, i primi lavori del gruppo verranno rinnegati dai quattro negli anni successivi: Bernard Sumner dichiara di non aver mai posseduto una copia di Movement, e i suoi brani non verranno praticamente mai eseguiti dal vivo. E’ un disco doloroso la cui difficoltà creativa viene lasciata però presto alle spalle in modo poderoso: il 1982 è l’anno dell’Ep Dreams Are Over, contenente brani come “Temptation”, “Confusion”, “Cries And Whispers”, “Mesh”, un passo in avanti clamoroso anche a livello commerciale: i New Order del periodo si aprono al pop, ma a modo loro: contaminando le origini punk con l’atteggiamento marziale dei Kraftwerk, si attirano, come già per i Joy Division, accuse di fascismo; i concerti durano non più di 40 minuti, non ci sono bis né parole tra i musicisti o rivolte al pubblico; il tono è insieme svogliato e rigoroso, come le impenetrabili parti vocali di Sumner. I loro stessi singoli sono ricercatissimi, ma difficili da trovare; la netta preferenza per il nuovo formato esteso, il 12″, rispetto al più breve 7″ permette di arrivare più facilmente al loro suono distintivo, fatto di una implacabile intercambiabilità tra drum-machine e batteria tradizionale, impasti sonori particolarmente densi e ripetitivi, riff trasferiti di peso dalla chitarra al sequencer. Nello stesso tempo d’altra parte sono proprio i New Order a creare un caposaldo sonoro degli anni 80, “Blue Monday/586” (1983): lungo oltre sette minuti, il brano si basa esclusivamente sui sample della celeberrima drum-machine Oberheim DMX, dalla quale Steve Morris preleva e sovrappone in un crescendo di complessità le più svariate soluzioni ritmiche disponibili. Il contrappunto tra i violenti beat dal tono più plastico e grave e il colpo di frusta dei rullanti, il basso galoppante di Hook e le atmosfere gregoriane del Minimoog creano un tono epico, che il canto glaciale, quasi parlato, di Sumner, invece di distruggere, rende ancora più solenne; Gillian Gilbert interviene nel finale creando lo spettro di una melodia e lasciando che il brano si dissolva nel nulla, prima di riprendere nella sua versione strumentale (il B-side “The Beach”, che di fatto rende il brano lungo oltre 15 minuti). Con estrema intelligenza, Sumner scrive un testo riferito alla guerra delle Falkland che riflette perfettamente la sensazione dell’ascoltatore di venire frustato dall’incedere della batteria: “How does it feel/ to treat me like you do/ when you’ve your hands upon me/ and told me who you are” diventa una delle strofe più celebri del decennio.

“Venerdì in Vintage DJAngelino”

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